Familiarità

“Familiarità” è stato esposto presso il Museo della Città di Rimini, in occasione della mostra collettiva Nove minime a cura di Giulia Marchi.

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Familiarità nasce dalle mie riflessioni su di un testo poetico che la fotografa Giulia Marchi, nel corso di un suo workshop, ha ritenuto molto mio, dandomi il compito di svilupparlo.

Un approfondimento  sulla vita di Jorge Francisco Isidoro Luis Borges Acevedo e sulle sue tematiche letterarie ha fatto emergere due elementi che mi hanno colpito.

In primis il fatto che le sue strutture narrative alterino le forme convenzionali del tempo e dello spazio per creare mondi di grande contenuto simbolico, ma anche che i suoi scritti prendano spesso la forma di artifici o di potenti metafore con sfondo metafisico, tanto che l’aggettivo “borgesiano” oggi definisce una concezione della vita intesa come storia fantastica, finzione e reinvenzione della realtà.

Ma anche la malattia ereditaria che progressivamente ha portato Borges alla cecità, isolandolo in un mondo buio ma, in quanto divenuta definitiva in età matura, popolato di ricordi precisi.
Un mondo che nel creare i mondi di cui sopra, ho immaginato egli abbia potuto riassemblare e ricostruire a suo piacimento, senza il vincolo stringente della realtà.
Questo slancio di fantasia è stato il cortocircuito, la scintilla che ha dato vita a Familiarità.

Un contributo indispensabile è venuto poi dal lavoro di natura introspettiva, fatto di riletture del testo, di riflessioni e di ascolto.

Tutto questo mi ha portato alla realizzazione di una galleria di ritratti di luoghi e di oggetti, tratti sia dal mio quotidiano familiare che al di fuori di esso, tutti però immortalati come se si trovassero, per dirla con Claudio Magris, “nell’incanto di un attimo nel quale sembra che stiano per dirci il loro segreto” (Dietro le parole, Garzanti 1978) e in ognuno dei quali il simbolo o la metafora sono dominanti.

In ossequio alla visione borgesiana, per reinventare la realtà di un mondo visto grazie alla presenza precisa del ricordo, ma trasformato dalla potenza della mente, ho traslato i miei ritratti in una metafisica irrealtà come quella che, mi piace immaginare, un occhio che più non vede e una mente che ben ricorda abbiano il potere di ricostruire e godere.

L’artificio tecnico che ho utilizzato per dar vita a questo mondo, è quello della conversione delle immagini in negativi digitali. Questo ha significato per me pensarle “al contrario”, scattandone molte di notte in modo tale che il buio potesse trasformarsi in luce, il bianco in nero e il colore nel suo complementare.

Su un piano personale quest’ultima scelta mi ha permesso di esorcizzare il senso di morte che nelle fotografie inevitabilmente aleggia (vedi R. Barthés), esaltando con un’esplosione di colori la forza della vita come solo la sostanziale ambiguità della fotografia permette di fare. 

Un tipo di esorcismo che, per il mio pessimo rapporto con la Morte, è una costante nella mia attività fotografica e che porgo al mio spettatore nonché a me stesso, a titolo di risarcimento per aver utilizzato per esprimermi un medium alla Morte così assimilabile.

La mia galleria di ritratti si apre con la gioiosa esplosione di colori di un giardino, metafora del mondo esterno, “che la frequente devozione della pagina interroga”.

Ecco poi il trittico delle abitudini quotidiane che ho rappresentato ritraendo le necessità basiche e indispensabili per vita di ogni essere umano: dormire (il letto), nutrirsi (il frigo) e liberarsi (la carta igienica).

Ecco il libro, sulle pagine del quale nulla è scritto perché tutto di me è noto a coloro che nella mia familiarità mi circondano.

Ed ecco le mie paure e le mie angosce. 

La tavola apparecchiata per un solo commensale, metafora della paura di una solitudine vissuta nella consapevolezza della innocente gioventù perduta che la la calla in decomposizione rappresenta.
La clessidra, nella quale i giorni già passati attraverso la gola dell’oggi e depositati nell’ampolla dei ricordi è maggioranza e rappresenta il mio futuro, oramai alle spalle.
La malattia fatale, al sopraggiunger della quale spesso vedo il ritorno prepotente delle fede.

Ecco la chiave, che solo quando qualcuno ti avrà completamente accettato ti darà, sia essa quella della sua automobile o quella del suo cuore.

Ed ecco quella che io considero essere l’unica Realtà innegabile: quella che ci rende tutti uguali, spogliandoci fin del nome (l’ammirazione e le vittorie conseguite in vita), che la infinita teoria di lapidi senza nome rappresenta.
 

E infine, a chiusura di questa storia eccoci nuovamente nel giardino ammantato di colori, dove come le pietre e gli alberi, Borges immagina che finalmente reali, potremo raggiungere il cielo.