Frammenti d’identità
Come on and look at me
this face is free I’m your fantasy
so who’d you wannabe
I’m a drama queen
come on and look at me
“Look at me”, Geri Halliwell
Che se fosse una questione d’identità, allora sarebbe sufficiente una fototessera, sebbene anche qui occorre fare i conti con l’irruzione concettuale di Franco Vaccari, après Duchamp, nel sacro tempio della Biennale. O con l’impassibilità deadpan di Thomas Ruff. E invece ci pensa già Hyppolyte Bayard a mettere immediatamente in chiaro che per certificarla occorre sporcarsi le dita con un altro tipo di impronta, decisamente più terrena, perché la fotografia può barare. Anzi, bara. E lo fa sotto gli occhi di tutti, spudoratamente. Così la questione del ritratto in fotografia si è andata ingarbugliando nel tempo, intrecciando psicologia, semiotica, teatro, fisiognomica e un pizzico di poliziesco quanto basta.
Com’è noto, il ritratto è una delle espressioni d’arte più antiche, la cui fortuna risiede probabilmente nell’aspirazione molto umana all’immortalità, che nella sfida al tempo assolve una funzione sostanzialmente documentaria, al netto ovviamente di celebrazioni ed enfatizzazioni di ruolo. Ma già Leon Battista Alberti nel “De pictura”, e Leonardo Da Vinci poi nel “Trattato” avvertono della necessità di fare “le figure in tale atto, il quale sia sufficiente a dimostrare quello che la figura ha nell’animo; altrimenti la tua arte non sarà laudabile”.
Il che annuncia una rivoluzione dei canoni, per un volto non più rappresentabile con la fissità dogmatica di un trofeo di caccia, quasi che la pittura prima e la fotografia poi dispiegassero il medesimo potere pietrificante della Medusa; piuttosto un’interfaccia, un medium fra interiorità ed apparenza da esplorare e interpretare. O da espugnare, per chi disponesse del tempo illusorio della pazienza, considerato che la consapevolezza della posa mette in gioco i molteplici corollari dell’intenzionalità. Che oscillando ambiguamente fra il desiderio di svelare e quello di nascondere, finiscono paradossalmente per rendere l’identità un mistero insondabile. Come riconosce Roland Barthes, “non appena io mi sento guardato dall’obiettivo, tutto cambia: mi metto in atteggiamento di ‘posa’, mi fabbrico istantaneamente un altro corpo, mi trasformo anticipatamente in immagine.” E dunque, “davanti all’obiettivo io sono contemporaneamente: quello che io credo di essere, quello che vorrei si creda io sia, quello che il fotografo crede io sia, e quello di cui egli si serve per far mostra della sua arte.”
Pertanto, malgrado l’insistente retorica del ritratto capace di cogliere l’essenza della persona nell’istante epifanico in cui emerge, ogni tentativo di oggettivare un’identità attraverso una sua messa in forma definitiva è destinato alle vulgate dei militanti della referenzialità ingenua. Un tentativo impossibile causa impermanenza dell’essere, potremmo dire, accogliendo quella pluralità dell’io già oggetto delle riflessioni di Paul Valéry, che nella nota quartina sulla fotografia dichiara l’impossibilità di riconoscersi in un ritratto, inconnu de moi-même, proprio per quella fluidità che caratterizza l’identità. Confermata, per altri versi, da dispositivi e canali multimediali che ospitano un racconto del sé ogni giorno diverso.
La prima evidenza delle “Storie” di Roberto Baroncini può dirsi perciò ontologica, visto che non siamo chiamati a misurarci con il genere di ritratto che si affida al volto come stargate dell’anima. Anzi, in qualche caso potremmo anche non poter parlare propriamente di ritratto. Poiché se il volto è invisibile, celato nella visionarietà onirica del frame, la concettualità dell’approccio si risolve in una progressiva separazione dalla dimensione fisica del reale, fino a diventare officina del simbolico.
Consapevole dell’impossibilità di ricondurre la frammentarietà ad unità, piuttosto che inseguire l’ozioso paradigma interpretativo Baroncini sceglie come spiraglio di indagine lo scarto fra realtà e immaginario, laddove i meccanismi indifesi dell’inconscio promettono una maggiore probabilità rivelatoria. Così l’Autore chiede a ciascuno dei suoi personaggi di immaginare il proprio ritratto, stimolando la proiezione di un sé che la fotografia si incaricherà di trasformare lato sensu in icona, dando vita ad un io sociale diversamente permanente da quello social. Ma soprattutto, scevro da ipocrisie. Poiché se è vero, come ci ricordano Shakespeare ed Instagram, che “tutto il mondo è un palcoscenico”, dove la maschera si sovrappone alla naturale molteplicità dell’io, una mise en scène senza infingimenti del come ci si vede rischia davvero di dirci qualcosa di autentico sul protagonista del ritratto. Come in realtà accade con le Storie raccolte in questo volume, frutto di una schietta analisi introspettiva che consente profondità difficilmente restituite dal ritratto classico. “Ascoltarsi – spiega Federico Mecozzi, musicista e uno dei protagonisti delle Storie -, ho scelto questa idea prima di tutto per la grande metafora ‘umana’ che rappresenta: l’esigenza di ascoltare e comprendere se stessi, per sentirsi meglio, per comunicare meglio con gli altri”. Ed è precisamente questa la chiave che informa la significazione densa di rimandi simbolici dei 30 ritratti, la cui minuziosa ambientazione scenica rimane sospesa fra paesaggio reale e paesaggio interiore.
Addentrandosi in questa “foresta di simboli” capita così di scoprire timidezze, ricerche di rifugi amniotici e di radici esistenziali, sfide e occasioni per ripensarsi proprio a partire da questo spunto, fino alla negazione stessa del ritratto, con un’assenza abitata da una narrazione indiretta concettualmente simile ad una mise en abyme, utile a sottolineare l’aporia del ritratto. Letture di se stessi a tratti molto intense che la transmedialità testuale s’incarica di rendere fruibili anche oltre i confini della dimestichezza fotografica, tracciando percorsi paralleli di parole e immagini che ciascuno può scegliere di affrontare congiuntamente o separatamente, dando priorità alla scoperta o alla verifica.
In questo metodo che si fa dispositivo, del sollecitare e stimolare il come del ritratto al soggetto stesso, cui è affidata anche la successiva selezione dello scatto, l’autorialità del fotografo è ad apparente rischio anonimato. Sappiamo fin qui della sua necessità di sperimentare traiettorie inusuali per inoltrarsi alla scoperta dell’uomo attraverso il ritratto, seduttivamente assedianti piuttosto che frontali. Ed è appunto in questa scelta di interpretare il proprio ruolo alla stregua di un facilitatore discreto, capace di ascoltare e accompagnare che si sostanzia una prima impronta autoriale, dando realizzazione ad una pratica progettuale che nel compiersi si afferma come strategia enunciativa, e infine cifra linguistica. Alla cui radice è riconoscibile una concezione del ritratto fotografico plurale, piuttosto che rigidamente canonizzato, coerente con la molteplicità stessa dell’io. E che si manifesta come espressione di autorialità già nell’atto intenzionale di selezione, che alla stregua di altrettanti ready made, ricontestualizza queste Storie ritagliate dal continuum dell’esistenza.
Pur nella visionarietà obbligata della fotografia staged, la cui dimensione estetica è affidata ad un sapiente uso cinematografico dell’illuminazione, Baroncini fa ricorso, riformulandola, ad un’esperienza da reportage, genere che sa perfettamente essere questione di fiducia e invisibilità. Come le sue Storie, che partono appunto dalla conquista della fiducia, l’atout che rende credibile e intimamente condivisa l’idea; il resto, la realizzazione, è faticosamente più semplice.
Ma la sfida dell’Autore non risiede soltanto nel ripensamento del sistema della rappresentazione: “ogni sguardo è un autoritratto, ma soprattutto è il ritratto di una cultura”, scriveva David Le Breton. Riflessione che nel ribadire la presenza dell’autore in quello che Wim Wenders chiama il “controscatto”, induce ad interrogarci sull’osmosi fra società contemporanea e significati sociali e culturali che transitano nel ritratto.
Nella circolarità del proiettarsi in immagine, compimento della società dell’iconic turn che incoraggia la rimediazione, ciascuno dei protagonisti delle Storie di Baroncini da vita ad un corpo semiotico, ben oltre quello somatico, che partecipa dei ruoli, delle narrazioni e dei modelli del proprio contesto interattivo. Insinuandosi in questo incessante flusso relazionale di input e feedback, che concorre all’elaborazione di un sé esteso, l’Autore ci offre spunti, prospettive e interrogativi attraverso i quali interpretare le mutazioni delle relazioni fra individuo, società e strategie rappresentative del ritratto, autentico tema di questo lavoro. A partire dalla consapevolezza di una separazione progressiva fra il ritratto per come lo abbiamo conosciuto fin qui, e la sua versione contemporanea, affidata sempre più spesso a guru mediatici e spin doctors vari, piuttosto che ad artisti. Il cui punto di vista, come dimostra Baroncini, rimane comunque essenziale proprio per la capacità di cogliere i meccanismi e le dinamiche della rappresentazione e delle relazioni con la società.
Insomma, tutto in queste Storie fuorché la pretesa di palombaro dell’anima.
Attilio Lauria
Critico fotografico, curatore indipendente